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Harbin secondo me
Diary • 03 febbraio, 2017

Harbin è una città gelida a gennaio, non si può davvero immaginare, per chi non abbia mai vissuto questa esperienza, come sia vivere in un posto dove la temperatura oscilla in questo periodo tra i meno 19 e i meno 25 gradi fissi. Una città ghiacciata e proprio per questo incantevole. Anche vestita da alta montagna il tempo di resistenza all’aperto è poco, il mio non andava oltre i 15 minuti, dopo era necessario entrare in un centro commerciale per continuare a passeggiare riscaldandoti.








Per me è stata la prima volta in Cina e la Cina mi ha meravigliata, un mondo diverso dal nostro, probabilmente ad Harbin anche di più. Lì la globalizzazione con i suoi negozi omologati è arrivata, ma non è riuscita ancora a prendere il sopravvento, forse perché è un posto frequentato da turismo asiatico e da russi e così all’occhio come il mio, occidentale, è parso tutto molto interessante, inedito. L’estetica è ancora quella cruda imposta dalla disciplina sovietica e dallo strascico del regime comunista e addobba con rigore ancora quasi tutto, e questo è bello perché sa di autentico.




Viaggiare oggi è consigliato proprio in quei posti ancora carichi di storia personale ed Harbin è un posto ancora così.




Prima di tutto i colori, i colori delle case, delle insegne giganti, delle persone, delle cose sono forti e si stagliano nell’aria tersa vibrando agli occhi degli osservatori ancor di più. In mente ho il giallo, il rosso ovunque, il viola e il verde, tutti accesi e in netto contrasto con carnagioni meravigliose di un candore inedito a contrasto con capelli nero blu ovunque. Donne bellissime, quelle meno cinesi, perchè un po’ anche russe, ancor di più, con occhi grandi da bambola e labbra color lampone.




I bambini indimenticabili, con i berretti calati sugli occhi sottili e il pon pon più grande di loro.

Tutti si danno un gran da fare, forse il freddo li obbliga davvero a muoversi di più e più velocemente, forse sono così di natura i cinesi, vivaci, molto. Sono un popolo giovane...

Poi il cibo. A parte i menù con le foto giganti di qualsiasi piatto, quello che ho capito è che è importante che sia servito in abbondanza sulle tavole, anche in varietà. Numerosi piatti e scodellone giganti di tanti cibi diversi che è impossibile terminare, pur se serviti a tavole occupate da numerosi commensali. Quando ho osato lamentarmi incautamente dello spreco attuato, mi sono resa conto di aver urtato la sensibilità delle miei gentili ospiti (le nostre interpreti che non ci lasciavano mai) che per onorare la nostra presenza ancor di più non badavano a limitare l’arrivo di qualsiasi prelibatezza venisse anche solo per caso sussurrata.

Scordatevi tovaglioli di carta e tovagliette, così come nelle toilette pubbliche non ho mai trovato la carta igienica e non perché fosse finita, semplicemente non c’era.





Tempo per godere di tante cose della città ne abbiamo avuto poco, ma la passeggiata sul corso centrale di Harbin (che ti porta da un lato alla Cattedrale di Santa Sofia e dall’altro al monumento in memoria dell’allagamento) si è fatta godere così come il giro sulla slitta di canotti trainata dal vecchio Land Rover al tramonto sul maestoso fiume ghiacciato Songhua che al tramonto ha visto me, Sofia e Paolo cotrasformarci in pochi minuti in contro figure di Jack Nicholson nel film Shining (scena finale del labirinto ovviamente).



Tornare ad Harbin è l’augurio che mi faccio, e a gennaio ancora, che senso avrebbe infatti visitarla a giugno con i suoi banali più 18°?

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